Tempo fa promisi che avrei scritto un post sul pavor nocturnus, poi presa dagli eventi tutto passò in secondo piano. Ma oggi mantengo la promessa.
Il Pavor nocturnus (terrore notturno, terrore nel sonno), è un disturbo del sonno piuttosto frequente che rientra nelle parasonnie; tipico dei bambini in età prescolare interessa circa il 3 % dei bambini, un po’ meno delle bambine; di solito compare fra i 2 e i 12 anni e scompare in adolescenza. Si verifica durante il sonno profondo, in genere nel primo terzo della notte lasciando amnesia parziale o totale dell’evento al risveglio.
Durante le crisi di Pavor nocturnus il bambino grida o piange sembrando in preda al terrore, può avere gli occhi sbarrati con pupille dilatate, oppure serrati, è sudato, ansante, pallido, a volte paonazzo, il respiro corto e frequente, la frequenza cardiaca aumenta come anche il tono muscolare. Talora perde l’urina. Si agita in movimenti scomposti, irrigiditi. Non è contattabile con gesti, né con parole, e se gli si parla, se viene toccato o abbracciato, il terrore può aumentare. La crisi può durare da pochi minuti a 30 minuti. Alla fine il bambino torna a dormire d’un sonno profondo, come non fosse successo nulla. In realtà continua a dormire nel suo sonno profondo che non s’è interrotto durante la crisi. Al mattino non ricorda nulla. Le crisi si verificano con frequenza variabile, irregolare, non prevedibile, a volte anche una sola volta nella vita in una fase di sonno non-REM, o sonno profondo. Quindi non durante un sogno, che avviene solo nelle fasi di sonno REM. Non si tratta di un incubo.
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Il caffè in gravidanza non provoca iperattività nei bimbi
I falsi miti della gravidanza potrebbero riempire un’enciclopedia, fra questi il fatto che non si possa bere il caffè per non influire sull’eventuale iperattività del bimbo che si porta in grembo. Ma quante volte una bella tazzina di caffè fumante avrebbe “rallegrato” la giornata?
Ebbene, ci sono ottime notizie per le donne in attesa: il caffè non influirà sull’eventuale iperattività del nascituro, e dunque può essere bevuto anche in gravidanza. A patto però di non abusarne. A dirlo è un recente studio olandese pubblicato sulla rivista Pediatrics.
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Il caffè protegge dal rischio di Alzheimer e diabete
Una notizia “leggera”, quasi fatta per me: bere da 3 a 5 tazze di caffè al giorno contribuirebbe a ridurre fino al 20% il rischio di ammalarsi di Alzheimer, e del 25% di sviluppare diabete di tipo 2.
I dati sono emersi da alcune ricerche presentate in un report di Alzheimer Europe pubblicato dall’Institute for Scientific Information on Coffee (Isic), un’ organizzazione no profit dedicata allo studio dei legami tra caffè e salute.
Per quanto riguarda la protezione verso la malattia di alzheimer i benefici arriverebbero da caffeina e polifenoli.
La prima è utile a prevenire la formazione delle placche amiloidi, ovvero le placche senili che rappresentano una delle caratteristiche microscopiche principali della malattia di Alzheimer, insieme alla degenerazione neurofibrillare ed all’Angiopatia amiloide, i polifenoli invece insieme alla caffeina, aiutano a ridurre l’infiammazione e il deterioramento neuronale. Una sintesi di tali risultati era stata illustrata anche in un simposio satellite durante il Congresso 2014 di Alzheimer Europe ovvero che un consumo regolare di caffè nel corso della vita è associato a un ridotto rischio di sviluppare Alzheimer che la protezione ottimale si ha con un consumo compreso fra 3 e 5 tazzine al giorno. Continua a leggere: Il caffè protegge dal rischio di Alzheimer e diabete…
Il caffè rende più longevi?
Questo post è per me. Per farmi un alibi e anche se gli studi sul caffè sono da sempre tantissimi e dicono tutto e il contrario di tutto, io voglio crederci.
Secondo uno studio effettuato su 400.000 persone e pubblicato sul New England Journal of Medicine il caffé non solo mantiene svegli, ma é anche un passepartout per la longevità: sembrerebbe infatti che gli amanti della caffeina vivano in media più a lungo di chi invece non beve caffé. Il caffé infatti ridurrebbe il rischio di morte per malattie cardiache, ictus, infezioni, lesioni o incidenti. Lo studio, durato numerosi anni, è stato condotto da ricercatori americani del National Cancer Institute presso i National Institutes of Health che hanno raccolto e poi analizzato le risposte di tutti i partecipanti a domande sul proprio stile di vita, abitudini alimentari e non solo.